A colloquio con Aboubakar Soumahoro, responsabile immigrazione nazionale USB

L'intervista, ripresa da Adapt.it, a cura di Francesco Lauria e Silvia Stefanovichj (in allegato l'originale impaginato)

Incontriamo Aboubakar Soumahoro, responsabile nazionale immigrazione RdB-USB e componente del comitato nazionale di USB (Unione Sindacale di Base), la nuova confederazione nata lo scorso 23 maggio dalla convergenza di diverse realtà del sindacalismo alternativo. La conversazione si svolge al tavolino di un bar vicino alla Stazione Termini, in un caldissimo pomeriggio d’estate. Abbiamo ascoltato la voce del sindacalista ivoriano, molte volte durante le principali manifestazioni antirazziste che, negli ultimi anni, si sono svolte in Italia. Il clima è profondamente diverso da quello gelido che, oltre dieci anni fa, lo ha accolto nel Nord del nostro paese, all’inizio della sua esperienza migratoria. Dopo anni vissuti anche in condizione di clandestinità Soumahoro sta per coronare una delle sue principali aspirazioni, qualche giorno dopo, infatti, discuterà la tesi di laurea che verrà conseguita con il massimo dei voti…

Parliamo del suo arrivo in Italia, dell’esperienza della clandestinità e del suo primo approccio con il mondo delle lotte degli immigrati e, successivamente, con il sindacato…


Il mio arrivo in Italia dalla Costa d’Avorio, è avvenuto verso la fine del 1999 ero all’oscuro di molte cose. Nella regione dove sono nato, ci sono molti italiani che si occupano di un’azienda di falegnameria e nello stesso momento trasformano il carbonio e compiono molte altre attività. Avevo sempre notato la presenza degli immigrati nella mia regione. Quando sono giunto in Italia per me è stato come scoprire un altro mondo. Non conoscevo la difficoltà di ottenere il permesso di soggiorno e molte altre problematiche, anche dal punto di vista culturale. Al mio arrivo ho trovato un grande freddo a cui non ero abituato e ho dovuto indossare a lungo due paia di pantaloni: mi trovavo in provincia di Milano, dove sono rimasto per un po’ di tempo. In seguito la mia catena migratoria è proseguita verso Napoli. Una volta giunto a Napoli sono venuto a conoscenza che il mio visto era scaduto e ciò comportava che io non avevo più il diritto a rimanere sul territorio italiano, un fatto questo che, collegandolo alla difficoltà di trovare un posto di lavoro stabile, rendeva la mia permanenza quasi impossibile. Ho cominciato a frequentare le associazioni che organizzavano momenti di ascolto e di informazione per gli immigrati. Poi partecipai, di mia iniziativa a una grande manifestazione a Roma, dopo averne letto il volantino, e mi aggregai ai migranti e agli studenti che, da Napoli, partivano per la capitale. Nel ritornare a Napoli, sul treno con molti degli studenti dialogammo di molti aspetti: della nostra provenienza, delle nostre aspirazioni di vita, e così via… Il mio sogno è sempre stato, lavoro permettendo, quello di studiare: questa era la mia intenzione e la è tuttora. In treno si è continuato a ragionare di questi problemi e aspettative. Giorni dopo mi chiamò al telefono uno di questi ragazzi con cui avevo condiviso il viaggio e mi propose di affrontare due temi: il diritto alla salute per i migranti e la questione della regolarizzazione. In seguito ci siamo incontrati insieme a altre persone, studenti, lavoratori. Io, all’epoca facevo il muratore, l’ho fatto per tanti anni. Quando ero a Napoli, si faceva la solita trafila: si andava sul posto di lavoro di primo mattino, si aspettava il caporale, insieme a noi migranti c’erano anche altri muratori italiani che aspettavano le proposte di lavoro, i turni, ecc. Da lì sono partito facendo mille lavori fino quando, dopo una prima riunione, si è dato vita ad un percorso per creare un ambulatorio medico popolare per i migranti a Napoli, non dimenticando la questione della regolarizzazione. Questi sono stati i punti di partenza di un percorso che intitolammo “Immigrati in movimento”, all’interno del quale vi erano immigrati con varie esperienze anche di mediatori culturali, operai come me e studenti italiani. In seguito, partecipai a una riunione nazionale sull’immigrazione che si tenne allo spazio sociale villaggio globale nel luglio del 2002, a Roma. Non era concesso ai singoli di parlare perché si riteneva che tutti fossero rappresentati dalle organizzazioni. Mi opposi a questo metodo rivendicando la possibilità di ognuno di esplicitare la propria opinione. La cosa strana, per me che era la prima volta che partecipavo alla riunione, era che la maggior parte delle persone che erano lì si conoscevano da almeno sette anni e gli immigrati presenti sentivano questa dinamica come uno spazio negato, spazio negato di manifestare quello che si è, di poter affermare come la si pensa. All’ora di pranzo ci avvicinammo agli altri immigrati per scambiare le nostre opinioni e venne fuori la sensazione condivisa che era impedito ai migranti di esprimersi con un contributo specifico all’interno di un percorso generale. Ci siamo dati un appuntamento successivo e a questo incontro con la presenza di tantissimi immigrati abbiamo chiesto che gli interventi potessero avvenire anche in varie lingue (con possibilità di traduzione) e da lì abbiamo dato vita al Comitato Immigrati in Italia. Il mio approccio avviene con l’impegno sociale diretto, e si sviluppa con il Comitato Immigrati negli ambiti di una situazione che mi colpiva in prima persona, poiché per me era inconcepibile, non partire dalle esperienze vissute, sia dal punto di vista introspettivo sia rispetto alle ricadute che queste esperienze avevano sulla questione della legislazione e dell’azione collettiva. Successivamente dopo il Comitato Immigrati di Napoli e nazionale è avvenuto l’incontro con il sindacato.

Qual è stato, nello specifico, l’apporto della sua esperienza di sindacalista nel Comitato Immigrati?


L’incontro con il mondo sindacale si è realizzato sul posto di lavoro, quando ero impiegato in una fabbrica di pantografia, dopo aver fatto il muratore, il benzinaio, aver lavorato a lungo la terra a Capua. Costruivamo porte blindate, non era un ambiente totalmente negativo, facemmo anche amicizia con alcuni dei lavoratori, ma, sul piano dei diritti, moltissime cose venivano a mancare. Il percorso collettivo degli immigrati fu portato avanti, invece, a livello locale e nazionale in un dialogo, anche con diverse divergenze, con il tavolo migranti del social forum. La questione che ci interessava era il nesso fra l’antirazzismo e la questione del lavoro, dei diritti. Per quel che riguarda il diritto alla salute riuscimmo a dare vita al primo ambulatorio medico popolare a Napoli che si trova presso l’ospedale Ascalesi, sul quale abbiamo anche scritto un libro. Successivamente abbiamo seguito il tema della regolarizzazione, problema di natura nazionale che prescindeva dalla questione territoriale in sé. Non tutti i migranti capivano a fondo la questione sindacale quando la ponevo, preferendo privilegiare altre rivendicazioni, come il diritto di voto, ma siamo andati avanti, incontrando l’esperienza di RdB-CUB. Questa esperienza mi ha aiutato molto perché mi ha fornito anche una chiave interpretativa per analizzare la distinzione tra la presenza massiccia dei lavoratori all’interno del sindacato e l’irrisolta corrispondenza dal punto di vista dell’emancipazione sui diritti. È sempre rimasta comunque una scelta personale, poiché nel Comitato Immigrati vi è completo pluralismo associativo, politico e sindacale. Sono comunque convinto che quando il sindacato riuscirà ad affrontare completamente questo nodo, potranno essere risolte molte contraddizioni.

“Connetti le tue lotte” è stato lo slogan che ha accompagnato la nascita di USB, Unione Sindacale di Base, la nuova confederazione nata il 23 maggio 2010. Come ha vissuto questo tentativo, per ora parziale, di unificazione del sindacalismo di base italiano? Quali cambiamenti, anche organizzativi, per il settore immigrazione, in un sindacato che finora ha organizzato, prevalentemente, dipendenti del pubblico impiego?


Io ho conosciuto RdB come organizzazione del privato, sul posto di lavoro. Questo è il punto di partenza, altrimenti non avrei incontrato il sindacato: l’ho incontrato anche perché RdB non si è mai fermata alla tutela del pubblico impiego, ma è presente in molti ambiti dei servizi e del privato, anche se è conosciuta principalmente per il suo importante ruolo nel pubblico impiego sia per le lotte che per l’opposizione alle continue esternalizzazioni di pezzi di pubblica amministrazione. Fin dal 2005, come RdB, abbiamo stilato documenti sulla questione immigrazione che partivano da una lettura che attraversava non soltanto l’ambito del lavoro privato, ma toccava anche l’ambito del lavoro pubblico. Si pensi, ad esempio, alle molte attività che oggi sono state messe in appalto dove all’interno vi è sia il dipendente pubblico, che il dipendente privato, con mansioni spesso simili e retribuzioni diversificate. Queste questioni ci hanno permesso di avere un approccio che, innanzitutto, partiva dal territorio, da quello che esprimeva ed esprime il territorio. Sulla questione dell’immigrazione l’approccio che abbiamo avuto è stato quello di distinguere vari ambiti: con l’idea di fondo che il migrante non va più visto semplicemente dal punto di vista del rapporto caritatevole, senza nulla togliere alla solidarietà. Partimmo stabilendo che l’immigrato è un essere umano prima di tutto. Che è un lavoratore come tutti gli altri, però con delle peculiarità. Come vedi, abbiamo cercato di rompere stereotipi cristallizzati: questo è stato uno dei primi passaggi. La questione lavoro mette in evidenza che c’è una grandissima contraddizione, sia in termini di rapporto tra migranti e il sindacato, ma soprattutto in termini di rapporto tra lavoratori, in generale e di relazione con le normative vigenti. La questione della frammentazione del lavoro ci ha, tra le altre, portato alla nascita di USB. Questa nascita è stata un fatto davvero significativo. Partiamo brevemente dalla storia di RdB, più che trentennale, che negli anni ‘90 insieme ad altri diede vita alla CUB confederazione di organizzazioni, non una confederazione di categorie. Negli ultimi anni di fronte all’acuirsi della crisi e del conseguente attacco furibondo ai diritti dei lavoratori ci siamo resi conto che questa esperienza non bastava più. Era necessario aprire un dibattito all’interno del sindacalismo di base, superando steccati anche politico/ideologici che a nostro parere non hanno più motivo di esistere. Un progetto quindi che parte dalla condizione materiale dei lavoratori, immigrati e italiani, che parla alla “gente normale”, capace di incidere nel concreto. Il progetto dell’USB si propone di dare delle risposte a questi problemi, mettendo in primo piano le esigenze reali nei tessuti e nelle realtà in cui viviamo. Dobbiamo anche ragionare su ciò che intendiamo oggi per fabbrica e luogo di lavoro. Un conto era fare sindacato negli anni Settanta, Ottanta, Novanta. Oggi abbiamo a che fare con un tessuto produttivo e industriale, dove ben oltre il 90% delle aziende è composto da imprese con meno di 15 dipendenti. Noi a questo fatto che risposta possiamo dare? Dobbiamo mettere in campo un progetto che permetta ai lavoratori di riconoscersi in esso e di esserne parte con un percorso alternativo reale, concreto, al di fuori delle ideologie. Un altro elemento è la questione delle esperienze degli immigrati. Quando vado a fare assemblee, in particolare nel Nord Italia, spesso capita che i delegati italiani ed immigrati mi pongano di fronte a situazioni di grande contraddizione. Molto spesso i lavoratori italiani accusano i lavoratori immigrati di aver “rovinato i loro diritti”. Quando faccio attività sindacale, non posso liquidare subito queste persone come xenofobi e razzisti, ma ho l’obbligo di capire il perché di questo atteggiamento. Andando alla radice di questa aspetto, si scopre che ci sono situazioni reali che sono le condizioni materiali oggettive del lavoratore migrante che viene collocato nella scala più bassa del tessuto lavorativo. È una condizione che danneggia il migrante, ma che colpisce con lui il diritto alla dignità dell’insieme dei lavoratori in quel segmento. Questo è il punto reale, è un dato di fatto. Non riconoscere ciò significa limitarsi a organizzare cortei, magari con migliaia di persone in piazza, per poi lasciare le cose come stanno, in una situazione statica. Come sindacato USB abbiamo cercato di mettere in evidenza questo elemento senza omettere, dove vi è il razzismo, di denunciare che è razzismo. La sindacalizzazione dei lavoratori in generale, in particolar modo dei lavoratori migranti, è una questione importante. La mia presenza nel coordinamento nazionale USB non è un fatto di immagine, ma coincide con un’apertura ai migranti nel sindacato che stiamo praticando in tutte le strutture a livello locale da quando USB è nata.

Che cosa ha differenziato prima RdB e poi USB nell’approccio all’immigrazione rispetto ai sindacati confederali? Qual è stata la vostra valutazione sul c.d. “sciopero” degli immigrati del 1° marzo? Cosa ha funzionato e cosa no, in quella occasione?


La questione di uno sciopero dei migranti parte da una motivazione giusta, se torniamo al punto che dicevo prima, in quanto porta con se, anche in termini di diritti, non solo gli immigrati ma l’intero sistema dei lavoratori. Se prendiamo situazioni come quella di Rosarno ove si è parlato di tutto, di razzismo, non mi soffermo infatti sulla questione del razzismo, ma sulla questione della condizione lavorativa dei migranti in agricoltura. Analizzando il mercato del lavoro italiano è importante un altro elemento: il 72% di chi svolge attività di assistenza alle persone è di origine migrante, parlo di quelle che vengono chiamate colf o badanti. Se prendiamo queste varie realtà e andiamo a indagare il piano dei diritti, troviamo un intero esercito di lavoratori e soprattutto lavoratrici che è costretto a vivere in un mondo a parte, accettando qualsiasi condizione. Una situazione esplosiva, questa, che ben giustifica uno sciopero sul tema immigrazione. Il tema, che ha attraversato il 1° marzo, è come realizzare una tale mobilitazione. Noi siamo dell’idea che lo sciopero sull’immigrazione sia una questione che va assolutamente affrontata, ma la vogliamo affrontare con tutti e la vogliamo realizzare, con la premessa che non sia soltanto uno sciopero con i migranti che sfilano per strada, ma uno sciopero che unisca. Vorremmo mettere insieme ai migranti gli studenti con le loro problematiche legate al diritto alla casa per i fuori sede che affrontano il problema degli affitti in condizioni simili a quelle dei migranti. Anche sulla questione del welfare o degli ammortizzatori sociali dobbiamo evitare la catena perversa della “guerra fra poveri”, avvicinare fra loro le famiglie e, come dice lo slogan USB, connettere le lotte. Vorrei davvero vedere come reagirebbe il sistema Italia ad uno sciopero di tutti i lavoratori domestici. È poi interessante analizzare i differenziali retribuitivi che portano i lavoratori immigrati a guadagnare spesso tra i 400 ed i 700 euro al mese. Questi elementi costituiscono gli ingredienti, le premesse, dello sciopero che però, ad esempio, vorrei realizzare unendo la lavoratrice immigrata, con la sua collega italiana, domestica anch’ella, perché, fin quando l’immigrato sarà funzionale all’abbassamento dei diritti, lei non avrà margine di scelta, dovrà seguirlo in questa discesa. Porterei questa lavoratrice in piazza con me, così come porterei in piazza anche i miei figli e i figli dell’altro mio collega, che si chiami Gennaro o Massimo, e che sono italiani. Questi ragazzi andranno a scuola insieme ed è mai possibile che non siano ancora considerati tutti italiani? Che significa essere italiano? Vorrei portare tutti questi bambini in piazza insieme ai loro genitori, agli operai. Vorrei portare in piazza gli studenti per dire loro: «guardate questo bicchiere, più si svuota più ognuno di noi avrà il suo bicchiere vuoto e i nostri bicchieri, tutti, ormai sono semivuoti. Questo è il punto». La nostra idea dello sciopero è questa. Il primo marzo, è stato un evento molto differenziato a seconda dei territori: ad esempio, a Torino, dove vivo ora, la zona di Porta Palazzo era vuota, tra i venditori quel giorno nessuno di loro è andato a lavorare, sia tra gli italiani che tra gli immigrati. Ci sono state anche delle aziende dove non si è lavorato. Poi, il comitato nazionale “Primo Marzo” e le sue valutazioni rappresentano un’altra questione, più complessa. Dobbiamo ricordare nelle nostre proteste che gli immigrati producono il 10% del prodotto interno lordo italiano, mentre dobbiamo ancora conquistare i diritti fondamentali. Ma dobbiamo unire i deboli, che spesso in questo paese, siano immigrati o italiani, mancano dei diritti fondamentali come quello alla casa o al reddito.

Lei è sposato con una ragazza italiana, conosciuta, come è accaduto a moltissime altre coppie, alla mensa dell’Università. Quali sensazioni personali anche in prospettiva futura, in un’Italia in cui montano fenomeni razzisti e, più che in passato, la multiculturalità sembra non la normalità, ma una strada in salita? Cosa si può fare di più per le famiglie immigrate, al di là dei contesti lavorativi?


Vorrei avvalermi della possibilità di non rispondere… quando pongono delle domande a me e mia moglie, siamo anche noi incuriositi di capire tutta questa curiosità. L’amore non ha colore, io sono stato accolto a casa sua senza alcun pregiudizio, lei è venuta in Costa d’Avorio da me e, per quel periodo si è integrata benissimo nella mia famiglia e nella mia comunità. Quando ho detto a mia madre che mi ero fidanzato, lei non mi ha chiesto di quale nazionalità o religione fosse la mia fidanzata. Fa parte dell’educazione che ognuno ha avuto. Rispetto poi alla questione della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia, la situazione è davvero assurda, così come la pretesa di renderla discrezionale, dopo i 18 anni, anche in base ad un esame di lingua italiana. Anche in considerazione della possibilità che vi siano esami di lingua italiana per ottenere la carta di soggiorno, mi chiedo quanti degli oltre 70 euro che io spendo per rinnovare il permesso di soggiorno, siano destinati al diritto allo studio e al sostegno delle strutture che organizzano corsi di lingua italiana per migranti, magari in condizioni di assoluta precarietà. Non ha alcun senso paragonare la caotica situazione italiana a ciò che avviene, per esempio, in Germania e Francia, dove vi sono strutture di base accessibili ed efficienti. Su questi aspetti, in Italia, siamo fermi da vent’anni. Mi ha fatto sorridere amaramente, il dibattito sull’italianità di Balotelli, quando è bastato, durante l’ultimo mondiale di calcio, guardare la nazionale tedesca per vedere come siamo di fronte ad un’Europa inevitabilmente multiculturale e multietnica. È una questione di volontà politica, che non possiamo nemmeno attribuire al solo governo Berlusconi, poiché molti problemi risalgono alla Legge Turco-Napolitano del 1998. Noi continuiamo a dire Balotelli sì, Balotelli no: il problema è la sostanza e se siamo pronti ad affrontare la realtà che si muove fuori. C’è la volontà politica? No, non c’è. Non è un problema di Berlusconi, è un problema trasversale: parte da Livia Turco e anche prima di lei, e arriva fino ad oggi. Non basta dire che qui ci sono i negozi di kebab, il problema è andare alle origini della legge. È assurdo non vedere in Italia un migrante che faccia, ad esempio. il tranviere. Abbiamo in vigore ancora delle norme del 1938 è qui la responsabilità è anche del sindacato. Noi questo problema lo poniamo da anni come uno dei punti per il rinnovo del contratto, da soli.


Lei ha vissuto da vicino l’evoluzione, di questi ultimi anni, del territorio di Castel Volturno. Com’è la situazione ora in questo territorio, simbolo di sopraffazione e illegalità, ma anche di importante mobilitazioni immigrate? Quale il rapporto con gli enti locali?

La situazione di Castel Volturno mette in evidenza problematiche antiche, parlo della questione del Sud. Io sono arrivato prima a Milano e poi sono andato a Napoli, da dove molti immigrati devono andarsene a causa della difficoltà di ottenere un impiego regolare. Questo ci fa riflettere molto. Nel mio caso non sono andato via perché non c’era un rapporto di lavoro regolare, ma per altre ragioni, connesse alla questione del tessuto sociale in sé. Vi è poi il problema della riqualificazione del territorio. Posso fare un esempio: il pogrom di Ponticelli contro i rom, quando contro bambini furono addirittura lanciate bombe molotov. È stata la mia prima volta che ho pianto in una manifestazione, con tanti manifesti del PD, con tanti manifesti di tutte le forze politiche. Ed ero a Napoli, che spesso si considera la capitale dell’accoglienza. Ma andando a scavare meglio sono venuti fuori i veri motivi che stavano dietro quella manifestazione di intolleranza xenofoba: gli interessi imprenditoriali per il piano di riqualificazione edilizio della zona. Molti manifestanti sono stati ricattati, pagati o semplicemente convinti con promesse di vario tipo, magari per ottenere beni o diritti che già spetterebbero loro. La stessa questione d’interesse si trova nella testimonianza di ciò che è successo a Pianura. Occupammo il Duomo di Napoli ed anche lì saltò fuori la stessa situazione degli interessi, in un intreccio che vale ancor di più per Castel Volturno. Ci sono interessi trasversali legati alla riqualificazione di un’area che era paragonabile ad una spiaggia dei Caraibi e che oggi paga decenni di enorme degrado, come ben spiegano il libro ed il film Gomorra, di Saviano. La riqualificazione non ha interesse alla permanenza di lavoratori migranti, poveri e sfruttati. Poi c’è un altro elemento: quello della camorra. Il tutto si chiude con una Regione Campania che fino a poco tempo fa è stata governata dal centrosinistra, e che ha emesso una legge sull’immigrazione solo nel lontano ‘89. Se si consultano le delibere si riscontrano forti stanziamenti legati al lavoro e all’accoglienza di cui non si vede alcun risultato. Basta fare un giro a Ponticelli, Barra, Pianura, San Nicola Varco, Castel Volturno e si incontra solo disagio. Molti migranti mi dicono: «io vengo dall’Africa però non ho mai vissuto in casa con dei topi». È una situazione in cui molti soggetti hanno illecitamente guadagnato e di cui i migranti hanno pagato e stanno pagando il prezzo. È un caos, anche se organizzato. In questa situazione drammatica fare sindacato è difficile, anche se stiamo coinvolgendo molti lavoratori, anche immigrati, facendoli partecipare. Certo i molti iscritti non bastano, occorre un lavoro quotidiano, come abbiamo tentato di fare a Rosarno, ben prima degli scontri e dei riflettori mediatici. Su questo, come USB, siamo disponibili ad alleanze che si basino su obiettivi, sui bisogni delle persone e sulla loro consapevolezza e non su schemi preconcetti e convenienze, anche sindacali.