dalla stampa: VOGLIAMO TUTTO - articolo su Left -
VOGLIAMO TUTTO
Senza diritti sul lavoro, senza possibilità di ribellione. Ricattati, sfruttati, minacciati: e ora dicono basta
di Paola Mirenda
«Saremo nelle piazze, in tutte le piazze, dalla manifestazione sindacale del 27 a quella antirazzista del 4 ottobre. E anche oltre. Non ci arrendiamo, questo è certo». Le parole di Ibrahima Djallo, responsabile ufficio stranieri della Cgil di Brescia, fanno capire che, nonostante l’aria che si respira, i migranti non ci stanno a farsi mettere da parte. Tre milioni e seicentomila, questo il numero degli stranieri per l’ultima inchiesta Caritas/Migrantes, di cui1,3 milioni con un impiego regolare, secondo i dati diffusi dal rapporto Istat 2007. Ma per l’Inail sono molti di più, ben 2,2 milioni. E in alcuni settori rappresentano una percentuale notevole della forza lavoro: se nei servizi sono ormai la maggioranza assoluta, il loro peso arriva al 12 per cento nel settore metalmeccanico (con 160mila lavoratori stranieri) e al 20 per cento in quello edile. «Ma si arriva anche all’80 per cento in alcune regioni, come nel Veneto», precisa Mouday El Akkioui, segretario nazionale della Fillea Cgil. «Senza poi contare coloro che lavorano in nero, ancora troppi, nei cantieri». Tuttavia, alla forza dei numeri non corrisponde quella dei diritti: pur producendo il 7 per cento del Pil del nostro Paese, non possono certo contare su molte garanzie. Un’inchiesta Fiom dello scorso maggio rileva come il 20 per cento abbia subito negli ultimi due anni intimidazioni sul posto di lavoro, e quasi il 30 per cento discriminazioni legate alla nazionalità. Per non parlare delle violenze fisiche da parte dei colleghi, denunciate dal 5 per cento dei lavoratori intervistati. «C’è una difficoltà a far valere i propri diritti», conferma Adama Mbodj, senegalese, segretario della Fiom di Biella e presidente del Comitato centrale dell’organizzazione dei metalmeccanici. «Nel nostro Paese, l’indice di democrazia in una fabbrica si misura dalla presenza al suo interno del sindacato. Ma qui, dove il permesso di soggiorno è legato al lavoro, la protesta può significare la fine di tutto quello che un lavoratore straniero ha conquistato». Essere licenziati significa perdere la casa, l’assistenza sanitaria, la scuola per i figli: troppe cose tutte insieme per dare la forza di rivendicare. «Non è un mistero che spesso ci si limita a combattere battaglie di retroguardia, di conservazione delle conquiste passate, piuttosto che fare un passo avanti, chiedere maggiore considerazione», commenta Mbodj. Gli fa eco il rappresentante degli edili Akkioui: «Non possiamo chiedere a un lavoratore straniero di scioperarein settori come il nostro, dove il lavoro è già a termine, precario, dove un contratto vale il tempo che dura un cantiere. "E se poi non mi richiamano?" è la risposta che ci sentiamo dare più spesso. Gli immigrati devono rispondere a una specificità imposta loro dalla legislazione e creare forme di lotta che non mettano a repentaglio la loro posizione». Un compito che spetta alla politica: difficile far fare rivendicazioni comuni quando le leggi dividono. «Il rischio di una guerra tra operai è sempre forte», aggiunge Akkioui. «Il messaggio che passa è "questi rubano il lavoro", mentre noi cerchiamo di spiegare che il lavoratore è ricattato, non è certo una sua scelta. Questo governo toglie diritti a tutti i lavoratori, ma soprattutto agli stranieri. Il sindacato deve fare la sua parte, ma anche la politica. Ci si dimentica che l’immigrazione non è di passaggio, ma è una scelta duratura. Negare l’integrazione significa provocare danni la cui dimensione non è prevedibile». L’immagine di Castelvolturno, la rivolta dei "disperati", echeggia nelle parole dei sindacalisti. «Se dicessi che non sono preoccupato mentirei», ammette Djallo.«Senza un cambiamento delle politichenazionali, se non si smetterà di criminalizzare chi è straniero, rendendo la vita un inferno anche a chi ha tutti i documenti in regola, dovremo aspettarci il peggio. Perché prima o poi si scoppia. Per quanto come sindacalisti possiamo essere abituati a trovare conflitti e rabbie e cercare di canalizzarle, per arrivare a forme di protesta democratiche, non riusciremo a governare tutto questo. Le norme che vengono fuori ogni giorno vanificano tutto il lavoro che abbiamo fatto in questi anni ». Sono le delibere regionali e locali, più ancora che la legge nazionale sull’immigrazione, a esasperare i lavoratori stranieri. A Brescia, dove il movimento dei migranti è stato il più forte d’Italia, da un paio d’anni la situazione è cambiata. Le conquiste ottenute sono state vanificate da regolamenti cittadini che cambiano nel raggio di pochi chilometri, rese schizofreniche da amministratori "creativi". Da un giorno all’altro le cose che si credevano acquisite sfuggono di mano, lasciando chi ha lottato con un pugno di mosche. «I migranti ormai ci accusano di essere dello Stato, ai loro occhi non siamo più attendibili, non si fidano», è l’amara considerazione di Djallo. «Coloro che si affacciano oggi al mondo del lavoro ci sfuggono di mano, perché la nuova generazione non è come quella di prima, calma, che aspetta. È la generazione che ti dice "se lavoro voglio, pretendo". I compromessi non gli piacciono e hanno anche ragione. Solo bisogna che le loro rivendicazioni diventino una lotta democratica, e per farlo serve un segnale di fiducia, che dia speranza. Qui non è una questione culturale, è una questione materiale. Se non gli dai le cose, cercano di ottenerle da soli. O si prende coscienza di questo o lo scenario è pessimo. Altro che la Francia. Mi aspetto molto peggio». Seconda generazione. Cittadini italiani, ma stranieri. "Estranei" per il colore della pelle, per religione, magari anche per diverse abitudini alimentari o di vestiario. Oltre 600mila nelle scuole italiane, si preparano a prendere il posto dei genitori nella catena produttiva. Secondo la Fondazione Migrantes, se oggi rappresentano il 10 per cento circa di tutti gli alunni, entro il 2020 gli stranieri potrebbero essere la maggioranza. «Tra pochi anni, episodi come quello di Milano non passeranno più nell’indifferenza», spiega Siddique Nure Alam Bachu, dell’associazione Dhuumcatu, molto attiva nella comunità bangladese della Capitale. Il riferimento è alla morte del giovane Abdul Graibe, ucciso a Milano al grido di "sporco negro". «I ragazzi stranieri che oggi vanno a scuola sono ancora una minoranza, che ha poche relazioni con il resto della propria classe. Il fenomeno della solidarietà ancora non scatta. Ma lo farà. Allora in piazza non ci saranno 4.000 persone, ma quattrocentomila». Forse non basteranno pochi anni, ma la composizione sociale del nostro Paese sta già cambiando. Oggi, nelle occupazioni delle case, i migranti e i cittadini italiani di seconda generazione rappresentano una quota non indifferente, che ha assorbito le lotte degli anni Settanta e Ottanta facendole proprie. Nelle manifestazioni studentesche, lentamente vengono fuori anche le istanze della "differenza", dalla richiesta di integrazione di altri continenti nei libri di storia a quella dei menu etnici. E persino nelle manifestazioni di disoccupati, anche se in modo non organizzato, la loro presenza si fa sentire. «Dove la disoccupazione è alta, come nel Sud», spiega Aboubakar Soumahoro, della Rdb-Cub campana, «è inevitabile che le due rivendicazioni, di salario e di diritti civili, si incontrino. Il primo diritto è quello al lavoro e questo vale per gli stranieri come per gli autoctoni. Solo, per i primi è più difficile ottenerlo, e sono due volte penalizzati. Qui è un miracolo se ti danno un lavoro, figuriamoci un contratto». In Campania lotte sociali e dei migranti si sono incontrate grazie anche a un lavoro capillare nei territori, costruendo coordinamenti regionali dei lavoratori stranieri. «In questo percorso, stiamo cercando di coinvolgere tutti, a partire dall’associazionismo locale - specifica Akkioui - perché è dal territorio che si deve partire, è inutile aspettarsi a livello nazionale che si risolva il problema». Parlare, spiegare, lottare insieme è la parola d’ordine dei sindacati. Perché, come dice Aboubakar, «è inutile nascondercelo: sulla pelle dei migranti stanno sperimentando oggi quello che faranno un domani su quella del resto dei lavoratori. Se non ci si ribella ora, dopo sarà troppo tardi».